QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

LE DIVINITA’ DELLA TERRA

Gea. Madre di tutti gli esseri.

Rea. Figlia di Urano e madre di Zeus.

Dioniso. Figlio di Zeus, era il dio del vino e della viticultura.

Sileno. Amico di Dioniso, era un vecchio dal naso rincagnato, la testa calva, grasso e tondo come un otre di vino.

Pan. Figlio di Ermes e della ninfa Penelope aveva i piedi di capra, due corna sulla fronte, una lunga barba e il corpo peloso.

Priapo. Figlio di Dioniso e di Afrodite era il dio dell’abbondanza.

Demetra. Sorella di Zeus era considerata la madre della Terra.

Gea, la prima madre
Prima c’era il Caos, poi spuntò Gea, la terra. Così gli antichi Greci raccontavano le origini del mondo e degli dèi. Gea generò da sola il Cielo, il mare e le montagne. Si scelse come sposo il Cielo che si chiamava Urano ed ebbe molti figli. Nacquero dapprima i Titani, sei maschi e sei femmine; poi i Ciclopi che non sono da confondere con quelli che incontrò Ulisse: avevano anch’essi un occhio solo in mezzo alla fronte. Erano tre e si chiamavano Bronte, Sterope e Arge. Poi vennero alla luce anche tre mostruosi giganti che avevano centro braccia, Cotto, Briareo e Gige. Dall’unione con il mare, Gea ebbe altri figli, tutte divinità specializzate con le acque: Nereo, padre delle ninfe Nereidi; Taumante, padre dell’arcobaleno; Forchi, Cheto e altri.

Quando scoppiò la guerra tra Crono e Zeus per il dominio dell’universo, Gea rimase neutrale: combattevano tra di loro tanti suoi figli, gli uni armati contro gli altri. L’unica soddisfazione di Gea era quella di vedere i suoi figli sempre in vita, essendo tutti immortali. Ma quando Zeus, sconfitti i nemici, imprigionò alcuni titani nell’inferno, Gea si ribellò. Si unì con l’inferno e diede alla luce un altro mostro, Tifone: aveva cento teste di drago che vomitavano fuoco. Sobillato dalla madre, Tifone dichiarò guerra a Zeus. Altra feroce lotta che si protrasse per diversi anni e che si concluse con la vittoria di Zeus: Tifone finì nel Tartaro, l’inferno degli dèi.

BASILICATA: L’ORZO

I due nomi con cui questa regione è chiamata, Basilicata e Lucania, fanno riemergere un passato davvero remoto. Basilicata deriva dal greco basilikòs (emissario del re) e risale al periodo di dominazione bizantina quando il territorio era governato da un rappresentante dell’imperatore d’Oriente. Ciò ci richiama alla mente il succedersi delle grandi civiltà che sono state via via protagoniste della storia di questa regione: Greci, Romani, Normanni, Svevi. Nessuno riuscì però a rompere l’isolamento della zona. Lucania, invece, deriva dal latino lucus (bosco). Un tempo, infatti, le pendici dei monti, che occupano gli otto decimi della regione, erano ricoperte di fitti boschi.

Oggi la Basilicata è in gran parte arida e brulla a causa di un’opera di progressivo disboscamento che ha prodotto danni gravissimi. Erosioni, frane, smottamenti, straripamenti di fiumi sono da imputare all’intervento insensato dall’uomo sul territorio nel corso dei secoli. Così si è venuta sempre più aggravando la povertà di questa regione, la più piccola dell’Italia meridionale, la meno abitata e una delle più colpite dal fenomeno dell’emigrazione.
La principale fonte dell’economia locale resta l’agricoltura, ma si tratta di un’agricoltura povera. Qualche miglioramento si è avuto grazie a interventi di bonifica abbastanza recenti e a opere di canalizzazione per l’irrigazione dei campi, oltre che a interventi di rimboschimento.
Le zone più fertili sono la piana di Metaponto e le valli dell’Ofanto e dell’Agri; le pianure occupano solo l’8 per cento del territorio. Le coltivazioni più diffuse sono quelle dei cereali, prima di tutto il grano. Altri cereali coltivati in questa regione sono il granoturco, l’orzo e l’avena.

La produzione di cereali è stata stimolata anche dalla riforma fondiaria con la distribuzione di case e terre ai braccianti e con l’incremento della meccanizzazione e della concimazione chimica. In questo modo si cerca di migliorare il tenore di vita dei lucani, senza per altro snaturare la loro tradizione agricola, che ha radici lontanissime nel tempo: sulle monete rinvenute in Basilicata tra le antiche rovine dei centri greci e romani, c’è impressa una spiga d’oro, simbolo di questa terra.

I SEGNI DELLO ZODIACO: IL TORO

Secondo gli astrologi, i nati dal 21 aprile al 21 maggio appartengono al segno del Toro perchè in quel periodo si verificherebbe l’allineamento Terra-Sole-Costellazione del Toro. In realtà, per gli spostamenti astrali avvenuti nel corso dei secoli, i tori vengono oggi a trovarsi nel segno dell’Ariete.

La Costellazione del Toro è una delle più belle del firmamento. Il suo nome deriva dalla mitologia greca e si riferisce al famoso ratto di Europa, quando Giove, per ingannare e rapire la bella figlia di Agenore, re di Tiro in Fenicia, si trasformò in un toro giovane e mansueto.

Nel Toro brilla Aldebaran (“alfa” Tauri), stella di prima grandezza visibilissima a occhio nudo. Si tratta di una gigante rossa con una luminosità quasi cento volte quella del Sole. “Al dabaran” in arabo significa “la successiva”, cioè la stella che segue le Pleiadi, mentre i Romani la chiamarono “palilicium” perchè, al suo tramonto, venivano celebrate le feste Palilie, divenute poi le feste per il “natale di Roma”.

Et Nath (“beta” Tauri) è anch’essa visibile a occhio nudo e si trova sulla punta più alta delle due corna del toro, mentre “zeta” Tauri, corrisponde alla punta del corno inferiore. Questa stella è una binaria (ha una compagna ravvicinata praticamente invisibile) ed è duemila volte pù luminosa del Sole.

Gli oggetti stellari più famosi della Costellazione del Toro sono gli ammassi stellari aperti delle Iadi e delle Pleiadi. Le Iadi si trovano in prossimità di Aldebaran e formano la testa del toro. Si tratta di un gruppo di 150 stelle distanti dalla Terra 130 anni luce. Le Pleiadi erano ben conosciute dagli Egizi che al loro sorgere, in novembre, le collegavano ai riti per la commemorazione dei morti.

Virgilio e Ovidio citano e cantano spesso le Pleiadi. I latini chiamarono le 7 stelle visibili di questo ammasso con i nomi delle 7 figlie di Pleione e di Atlante.
In realtà a occhio nudo se ne scorgono solo 6 e questo perchè Merope, una delle 7 sorelle, sposò un mortale, Sisifo, compromettendo la sua ascesa fra gli astri. Gli astronomi arabi, più acuti e precisi, ma certo meno poetici, chiamarono le Pleiadi “da-giagia-as-sama-nabanatihi”, “la gallina celeste con i suoi pulcini”.

Nella Costellazione del Toro si trova il corpo forse più straordinario dell’Universo. Si tratta della famosa Nebulosa del Granchio, M1, vicino alla punta inferiore delle due corna. M1 è ciò che resta della grande esplosione di una stella avvenuta nel luglio del 1054 e osservata dagli astronomi cinesi e giapponesi del tempo.

Dal periodo Precambriano, circa 750 milioni di anni fa, possono essere esplose almeno 10 stelle, e ciascuna di queste esplosioni avrebbe potuto produrre effetti letali su alcune specie viventi del nostro pianeta. La scomparsa dei dinosauri, ad esempio, potrebbe essere stata causata da una di queste terribili catastrofi cosmiche.
La Nebulosa del Granchio è diventata una vera e propria miniera di informazioni per la moderna astronomia, rivelando molti segreti sulla vita delle stelle e permettendo scoperte clamorose come quella dei “little green men” o “piccoli uomini verdi”, così come venne chiamato il primo segnale radio a intermittenza regolare proveniente dal suo interno. Si trattò, in realtà, della scoperta della prima “pulsar” o “stella pulsante”.

VENETO: IL VETRO

Il vetro fa parte della storia del Veneto: all’epoca dell’Impero romano, Aquileia, importante porto dell’Adriatico settentrionale, era già un centro famoso per la lavorazione del vetro, che all’arrivo dei barbari, secondo la leggenda, fu trasferita a Venezia. Il documento più antico che attesta l’esistenza di quest’arte è del 982. Si tratta dell’atto di donazione della chiesa di San Giorgio Maggiore ai Benedettini e porta la firma di un certo “Domenico fiolario”, cioè Domenico “vetraio”, visto che “fiola” indicava una bottiglia di vetro dal collo stretto. Questo per quanto riguarda l’Italia, ma si sa che in Egitto, già nel II millennio avanti Cristo, si fabbricavano amuleti, scarabei, piccole maschere e vasetti per unguenti e profumi in vetro.

Da Venezia le fornaci per la lavorazione del vetro furono trasferite nell’isola di Murano che tuttora è il centro più importante di produzione del vetro, nel 1271. Questo trasferimento fu motivato dal pericolo di incendi rappresentato dai forni a legna, ma doveva servire anche a proteggere il patrimonio di conoscenze e di oggetti artistici dell’industria vetraria.

Alla fine del Quattrocento la fama dei vetri di Murano era diffusa in tutto il mondo. Nel Settecento il tradizionale predominio veneziano in questo campo fu messo in crisi dai progressi tecnici e artistici dei vetrai inglesi, francesi e boemi. Il divario sarà colmato solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La rinascita definitiva avviene nel nostro secolo ad opera di grandi famiglie di maestri del vetro soffiato che iniziano una fruttuosa collaborazione con famosi artisti e al cui nome è legata la migliore produzione di vetri veneti: Barovier, Toso, Ferro, Seguso, Moretti.
Venezia è la patria dei vetri d’arte, di cui ora esistono collezioni di inestimabile valore. Alla base della lavorazione del vetro sta un impasto di silice e soda fornito dalla cenere di piante marine: il vetro così composto si mantiene allo stato pastoso a lungo, permettendo al maestro vetraio di plasmarlo. Su questa base si sono innestate nei secoli varie tecniche che hanno dato vita a oggetti di incredibile varietà di spessore, forma, colore e decorazioni. I segreti dei maestri vetrai e degli artisti che lavoravano con loro erano racchiusi nei “libretti delle composizioni” per il perfetto dosaggio delle polveri, che venivano tramandati di padre in figlio sul letto di morte.

Attualmente le vetrerie di Murano, isola della laguna veneta, sono moltissime con qualche migliaio di dipendenti e un fatturato di parecchi milioni di euro all’anno. Una buona parte dei vetri prodotti viene esportato all’estero, soprattutto in Giappone e Stati Uniti.

LE CIVILTA’ BARBARE: I BRITANNI

Britannia è il nome celtico dell’Isola di Gran Bretagna. Quando vi giungono i Romani, nel primo secolo a.C., trovano una popolazione divisa: i Canti (nel Kent), i Regni (a Chichester), i Dumnonii (in Cornovaglia), i Siluri (nel Galles), i Caledoni (in Scozia) e i Briganti (a sud del Tamigi). Sono abili agricoltori e guerrieri indomiti. Hanno organizzazione politica e costumi religiosi molto simili a quelli della Gallia, strettamente legata alla Britannia anche durante le guerre galliche.

Dopo le campagne di Cesare (55-54 a.C.), l’isola è soggetta a un tributo annuo, ma rimane indipendente sino alla conquista compiuta da Claudio (43-48 d.C.) che costituisce a provincia la parte sud-orientale. Remota, di difficile accesso ed esposta alle invasioni del Nord, la Britannia costringe i Romani a lasciarvi una guarnigione di tre legioni più gli auxilia, gli aiuti (circa 50 mila uomini). A questa prima fase della colonizzazione va riferito l’ampliamento delle vie strategiche, con la conseguente sistemazione delle fortificazioni di frontiera: i due valli costruiti da Adriano e da Antonino Pio (dal 122 al 142).

La seconda fase della romanizzazione culmina nel IV secolo e stabilisce una struttura sociale ed economica basata sulla “villa”, intesa come azienda agricola.

I Romani cominciano a evacuare l’isola nel 410 e da allora la Britannia viene invasa da Angli, Sassoni e Luti che arrivano dal continente. Una parte dei Britanni si rifugia nell’Armonica, che da allora prende il nome di Bretagna. La Britannia romana lentamente scompare e anche il cristianesimo, introdotto all’inizio del III secolo, va declinando. La regione verrà poi convertita al cristianesimo nel secolo VI.

La regina Bondicca sola contro Roma
Bondicca è il nome latino della regina degli Iceni. Era una donna giovane, bella e coraggiosa. Fu lei, attorno al 60 d.C., a ribellarsi agli invasori Romani e a tentare la riconquista dell’isola. Il suo popolo, gli Iceni, abitava insieme con i Trinovanti il territorio a nord dell’estuario del fiume Tamigi. Scintilla della ribellione furono gli abusi e le crudeltà compiute dalle legioni di Svetonio Paolino. Bondicca raccolse accanto a sè un pugno di valorosi e diede battaglia. Vinse i primi scontri, infiammò di libertà una fetta dell’isola. Ma da Roma arrivarono altre regioni e fu lo stesso Svetonio Paolino a soffocare la rivolta. Bondicca, piuttosto che consegnarsi al nemico, si tolse la vita.

L’usurpatore Carausio imperatore per tre anni
Aurelio Carausio, un romano di umili origini che era riuscito a diventare prefetto della flotta della Manica, nel 286 d.C. viene incaricato di dare la caccia ai pirati franchi e sassoni che saccheggiano le coste dell’isola. Carausio, che è un abile ammiraglio, distrugge le navi nemiche. Ma poichè è anche sfrenatamente ambizioso, subito dopo la vittoria si ribella a Roma: occupa la Britannia e il nord della Gallia. E nel 293 si proclama imperatore, dopo aver sconfitto le truppe di Massimiano. Diocleziano finge di riconoscerlo ufficialmente, ma intanto prepara un tranello. Che scatta quando l’usurpatore viene ucciso da Allecto, un suo ufficiale al quale è stato fatto credere che avrebbe potuto sostituirlo. Nel 296 l’autorità imperiale è ristabilita da Costanza Cloro e la Britannia da allora viene amministrata sotto forma di quattro province separate.

Le terme di Bath
La cultura romana dominò, senza soffocarla, l’antica tradizione celtica. Benchè la provincia non riuscisse a esprimere un vero e proprio stile romano-britannico, apporti indigeni sono ritrovabili in molte espressioni artistiche e artigianali. Tra i più significativi resti architettonici vanno ricordati il tempio di Claudio a Camulodunum (Colchester) e nella città di Bath (l’antica Aquae Salis) il grande edificio termale e il tempio di Sul, dea delle sorgenti calde assimilata a Minerva. Notevoli anche le decorazioni (famosi i mosaici di Lullingstone) delle dimore di campagna.

LOMBARDIA: IL PANETTONE

La sera di un Natale di tanti anni fa, nel ‘500, Toni, il giovane garzone di un fornaio, era distrutto dalla fatica e si addormentò davani al forno dove stavano cuocendo delle focacce. Fu risvegliato da un cattivo odore di bruciato. Davvero un brutto guaio, perchè le focacce dovevano essere servite poco dopo in un banchetto importante. Disperato, Toni cercò di rimediare: raccolse quel che era rimasto sul tavolo, un pò di pasta di pane, uova, burro, miele e uvetta. Impastò il tutto e lo mise nel forno, affidandosi alla sua buona stella. Quando sull’improvvisato dolce si formò una bella crosta dorata, lo tirò fuori e lo servì in tavola. Fu un successone! Da allora il “pane di Toni” poi diventato “panettone”, non è più mancato sulle tavole milanesi nel giorno di Natale.

Fin qui la leggenda. Ma il vero “papà” del panettone è oggi considerato un giovane pasticciere, Angelo Motta, che nel 1921 ebbe un’idea geniale: tornare agli antichi metodi di lievitazione, usando impasti lasciati a riposare per almeno 24 ore. Così il dolce cambiò forma e diventò alto, come un cappello da cuoco. Motta e il suo concorrente Gino Alemagna, negli anni Trenta fecero conoscere il panettone in tutta Italia e poi nel mondo.

Ancora oggi, anche nella produzione industriale, la ricetta è quella di tanti anni fa. Si prepara un primo impasto di farina, con burro e zucchero, che si lascia lievitare a lungo. Il tutto viene unito a un secondo impasto di farina, uova, burro, zucchero, canditi e uva passa. Si cuoce il tutto al forno, fino a che la crosta non diventa scura e consistente, mentre l’interno resta soffice.

Alla ricetta tradizionale si sono aggiunte parecchie varianti: oggi possiamo trovare panettoni al cioccolato, ripieni di crema o di zabaione, ricoperti di glassa e così via.

In Italia si consumano circa 50 milioni di panettoni all’anno, quasi uno a testa. Il 50% è acquistato nel periodo natalizio, l’altra metà nelle settimane successive, fino al giorno di san Biagio, il 3 febbraio, secondo una vecchia leggenda che sostiene che mangiare una fetta di panettone il giorno di san Biagio tiene lontani raffreddori e mal di gola.

LE CIVILTA’ BARBARE: GLI ERULI

Sono passati oltre 400 anni dalla nascita di Gesù. L’Impero romano d’Occidente, nel quale si sono succeduti oltre 80 imperatori, sta recitando in modo inglorioso le sue ultime battute. I barbari attaccano da ogni parte le frontiere dell’impero. Arrivano dal Nord, dall’Est, dall’Ovest. Ci sono i Visigoti, i Vandali, gli Alani, i Burgundi, i Franchi (i Galli), i Goti, gli Unni. Alcuni di questi popoli non vengono nemmeno citati nelle frettolose note storiche dei libri di testo. Qualcuno ha sentito parlare dei Rugi, degli Sciri e dei Turcilingi? Eppure c’erano anche loro a scorrazzare nella Penisola italica, ormai diventata terra di conquista. Dalle Alpi, originari della lontana Scandinavia, scendono anche gli Eruli. Un popolo che era già stato protagonista, alcuni secoli prima (nella seconda metà del 200), dell’invasione della Grecia, dove aveva messo a ferro e fuoco tutto il territorio. Un gruppo si era spinto fino in Spagna. Predatori e cacciatori, come pochi altri, avevano saccheggiato tutte le coste della Gallia e della Spagna.

Gli Eruli furono poi sottomessi dagli Ostrogoti, per passare poi con essi sotto il dominio degli Unni. Dopo la morte di Attila recuperarono la loro indipendenza stabilendosi sulle rive del Danubio e fondando un forte regno. Vinti dai Longobardi, si dispersero unendosi ad altri popoli. Nel sesto secolo scompaiono dalla storia come popolo indipendente. Erano famosi per la velocità nella corsa, molto fieri, coraggiosi, amanti della libertà. Più di altri rimasero fedeli alle primitive costumanze germaniche. Un loro capo di nome Sinduald nel 566 sconfisse i Goti. Alcuni storici sostengono che gruppi di Eruli si stabilirono nelle vallate tridentine. Ma non ci sono riscontri precisi.

Odoacre, re degli Eruli
Odoacre, viene indicato in alcune fonti storiche come il re degli Eruli. Ma sembra che fosse uno sciro. Nato nel 434, entrò al servizio dell’impero. Quando le milizie barbare, che formavano la maggior parte dell’esercito romano, pretesero un terzo delle terre d’Italia, ottenendone un rifiuto, Odoacre prese la testa della rivolta. Gli insorti lo proclamarono re e tra questi gli Eruli gli furono i più fedeli. Ma arrivarono in Italia i Visigoti, che costrinsero l’esercito di Odoacre a ritirarsi a Ravenna. Mentre per tutta l’Italia infuriava la lotta fra barbari, i Visigoti assediarono la città di Ravenna. Dopo tre anni, costretto dalla fame, Odoacre negoziò la resa con Teodorico, re dei Visigoti. Dopo la promessa di avere salva la vita e di conservare una piccola parte del potere, aprì le porte della città. Teodorico entrò a Ravenna da trionfatore il 5 marzo del 493. Ma non mantenne le promesse. Dopo dieci giorni Teodorico fece uccidere Odoacre, re degli Eruli e tutti i suoi familiari, compresi la moglie e il figlio.

L’ultimo imperatore romano
Gli Eruli hanno contribuito a mettere la parola fine all’Impero romano d’Occidente. Facevano parte delle milizie di Odoacre, che a Pavia sconfisse l’esercito imperiale comandato da Oreste e depose il giovane imperatore Romolo Augusto. Una sorte ironica volle dare a questo ragazzo, destinato ad essere l’ultimo imperatore di Roma, il nome del primo. Romolo Augusto, che poi la storia ha chiamato “Augustolo”, cioè “Augusto il piccolo” per distinguerlo dal grande, venne confinato nel Castel dell’Uovo a Napoli con una ricca pensione. L’impero romano d’Occidente scompare non solo di fatto, ma anche di nome. Le aquile romane hanno smesso di volare e comincia il Medioevo. Era l’anno 476.

La fine dell’impero di Roma
La maggioranza degli storici sostiene che la fine dell’Impero romano fu provocata soprattutto da due fatti: il cristianesimo e la pressione dei barbari che calavano dal Nord e dall’Oriente. Non è proprio così. Il cristianesimo non distrusse nulla. Si limitò a seppellire un cadavere: quello di una religione in cui ormani non credeva più nessuno e a riempire il vuoto che esso lasciava. Una religione conta non in quanto costruisce dei templi e svolge certi riti, ma in quanto fornisce una regola morale di condotta. Il paganesimo questa regola l’aveva fornita. Ma quando Gesù Cristo nacque, essa era già in disuso, e gli uomini, consciamente o inconsciamente, ne aspettavano un’altra. Non fu il sorgere della nuova fede a provocare il declino di quella vecchia, anzi il contrario. Tertulliano lo scrisse apertamente. Per lui tutto il mondo pagano era in liquidazione. E quanto prima lo si sotterrava, tanto meglio sarebbe stato per tutti.

I SEGNI DELLO ZODIACO: L’ARIETE

Secondo gli astrologi, i nati col Sole in Ariete, nel periodo dal 21 marzo al 20 aprile, sono intraprendenti e impulsivi. Nella reale disposizione degli astri, in questo periodo si verifica l’allineamento Terra-Sole-Costellazione dei Pesci. Quindi gli “Arieti” appartengono di fatto ai “Pesci” che, sempre secondo gli astrologi, sono dispersivi e un pò apatici.

La Costellazione dell’Ariete, che possiamo osservare nel nostro cielo in autunno e in inverno, prende il suo nome dell’ariete che salvò Frisso ed Elle, i due figlioli della dea delle nubi Nèfele e di Atamante, il signore di Orcomeno.
La leggenda narra che Ino, la seconda moglie di Atamante, per placare la terribile carestia scatenata da Nèfele su Orcomeno, convincesse il marito a sacrificare agli dèi i figlioli avuti con questa.
A questo terribile destino pose rimedio, appunto l’ariete dal vello d’oro che, presi in groppa i ragazzi, s’involò verso la Colchide.
Purtroppo , però, durante il volo Elle cadde in mare, in quella regione che venne poi chiamata Ellesponto. Frisso si salvò e l’ariete, per premio, fu trasformato in costellazione.

La stella più importante dell’Ariete è “alfa Arietis” che in arabo si chiama Hamal (“Ariete”) o Elnath (“Colui che colpisce con le corna”). Si tratta di una gigante rossa visibilissima a occhio nudo, distante dalla Terra 80 anni luce.
”Beta Arietis” o Scheratan (“I due segni”) è una stella doppia che dista da noi 50 anni luce.

Osservando con un piccolo telescopio “gamma Arietis”, si possono riconoscere le due stelle che la compongono e che gli arabi chiamarono Mesartun (“I domestici dell’Ariete”).
Sempre con un piccolo strumento, o anche con un semplice binocolo, si possono facilmente separare le due componenti di “lambda Arietis” e riconoscere le tre componenti del sistema triplo “pi Arietis” che distano dalla Terra 650 anni luce.
Proprio accanto a “lambda Arietis”, a un solo grado verso est, si trova la nebulosa a spirale NGC772, anch’essa visibile col binocolo.

Visibile alle 9 di sera
La Costellazione dell’Ariete è la prima delle costellazioni dello Zodiaco; di quelle costellazioni, cioè, che si trovano in prossimità dell’eclittica, ovvero lungo il percorso annuale del Sole.

Le più antiche costellazioni dello zodiaco risalgono alle prime osservazioni del cielo fatte dagli antichi egiziani, almeno 15 mila anni or sono. Mentre la suddivisione in 12 parti, o figure, così come oggi le conosciamo, la dobbiamo ai Sumeri che abitavano le pianure della Mesopotamia 2000 anni prima di Cristo.

In Ariete, a quei tempi, si trovava il cosiddetto “Primo punto d’Ariete”, cioè il punto in cui l’eclittica interseca l’equatore celeste e dove il Sole viene a trovarsi, il 21 marzo, nell’Equinozio di primavera.

Il movimento astrale chiamato “precessione degli equinozi” ha spostato, nel corso dei secoli, il primo punto d’Ariete nella Costellazione dei Pesci e, fra non moltissimo tempo, lo sposterà nell’Acquario.

Quindi, dato che gli astrologi attribuiscono grandissima importanza al punto dove si trova il Sole al momento della nascita, bisognerebbe tenere conto del fatto che, dal punto di vista astronomico, chi nasce nell’Ariete si trova in realtà nel segno dei Pesci.

La Costellazione dell’Ariete è visibile, nei nostri cieli, verso le ore 21, dalla fine di settembre alla metà di gennaio. Il suo punto di massima elevazione, cioè il suo punto più alto sull’orizzonte, si verifica, nelle nostre regioni, il 10 dicembre alle ore 21, quando l’Ariete passa sul nostro meridiano in esatta direzione sud.

FRIULI-VENEZIA GIULIA: LA GRAPPA

I friulani la chiamano sgnapa, i veneti graspa, i piemontesi branda, i sardi abba ardente o filu ferru: è la grappa, un liquore tutto italiano, ma diventato ormani famoso e apprezzato in tutto il mondo. Si potrebbe definire un liquore popolare o povero, perchè viene prodotto con le vinacce, cioè con i grappoli d’uva già pigiati. Un tempo si beveva d’inverno in campagna e in montagna per scaldarsi, data al notevole gradazione che il liquore raggiunge (45 gradi), ora si offre anche nei salotti eleganti delle grandi città. I più famosi e tradizionali bevitori di grappa sono gli alpini, che con essa si aiutavano per affrontare i disagi e il gelo delle marce e degli appostamenti in montagna durante le guerre. Risulta, però, che la grappa sia stata offerta agli invitati di nozze dell’attuale regina d’Inghilterra e si sa che lo scrittore Ernest Hemingway la lodò più volte.

La grappa cambia gusto a secondo del tipo di uva da cui è ricavata: quella friulana è particolarmente apprezzata perchè robusta e profumata. Il segreto della sua qualità sta tutto nella distillazione, un’arte antica già nota ai Greci e ai Romani. Le vinacce vengono messe dentro una caldaia. In un’ora si distillano circa 7 litri di alcol per 1 quintale di vinacce. Dapprima esce la cosiddetta testa, la parte peggiore e dannosa alla salute perchè ricca di acido metilico. Poi, per circa 40 minuti, esce il cuore, la parte migliore. Infine la coda, anch’essa non utilizzabile. Gli intenditori dicono che la grappa va prodotta nel luogo stesso in cui matura l’uva che si utilizza, perchè nel trasporto le vinacce perdono sapore. Perciò i migliori produttori si trovano nelle zone ad alta produzione vinicola.

La legge italiana impedisce agli agricoltori di utilizzare le proprie vinacce per fare in proprio la grappa. La distillazione deve avvenire secondo rigide norme burocratiche e fiscali. Nasce così il fenomeno della grappa da fattoria, un tipo particolare di acquavite prodotta da artigiani distillatori che utilizzano esclusivamente le vinacce di una sola azienda agricola. In questo modo il contadino rispetta il divieto imposto dalla legge, ma nello stesso tempo è sicuro di vendere, accanto al proprio vino, la grappa ottenuta soltanto dalle sue graspe.

In Friuli, la nascita della grappa si fa risalire al 1897, in località Percoto, a pochi chilometri da Udine. Qui i distillatori Nonino avrebbero prodotto la prima e più celebre grappa da monovitigno, cioè da un solo vitigno. Questa grappa, prodotta tuttora e venduta a prezzi piuttosto alti, proprio per la sua straordinaria qualità, viene prenotata anni prima che sia prodotta e, finita la distillazione, è già esaurita.

Accanto a questa grappa, ne vengono prodotte altre, sempre nel pieno rispetto della genuinità e della tradizione, come quella di Ribolla, di Schioppettino, di Pignolo, di Fragolino e così via. L’importante è che tutta la materia prima sia rigorosamente friulana.

THOMAS EDWARD LAWRENCE: I SETTE PILASTRI DELLA SAGGEZZA

Autore: Thomas Edward Lawrence
Lingua originale: inglese
Data di uscita: 1926
Genere: opera storica
Epoca: prima guerra mondiale, rivolta araba

L’AUTORE
Nato nel 1888 nel Galles, Lawrence si appassionò da ragazzo all’archeologia. Dopo gli studi in Scozia, Francia e all’Università di Oxford, la passione per gli antichi castelli costruiti dai Crociati lo portò in Siria, dove si impadronì rapidamente del linguaggio e delle usanze locali. Dopo la guerra contro i turchi, rimase molto deluso dalla decisione del Congresso di Versailles, che negava l’indipendenza araba, da restituire tutte le sue decorazioni e arruolarsi sotto falso nome nella Raf, come semplice aviere. Morì nel 1935 in un incidente motociclistico, che a qualcuno parve sospetto. Dopo la sua scomparsa la sua leggenda si è ingigantita. Per i molti è conosciuto come Lawrence d’Arabia.

LA TRAMA
All’inizio della prima guerra mondiale l’Impero ottomano, in via di disfacimento ma ancora potente, è alleato della Germania. I suoi territori si stendono in quello che oggi viene chiamato il Medio Oriente, e costituiscono una minaccia per gli inglesi. Lawrence è un giovane archeologo, addetto all’Ufficio Arabia del comando britannico al Cairo, e conosce a perfezione le lingue e i dialetti del luogo. E’ dunque a lui che le autorità di Londra ricorrono, pensando di poter indurre le tribù arabe a sollevarsi contro il dominio turco. Le azioni di guerriglia si svolgono dal 1916 al 1918, e questo libro ne è l’affascinante narrazione.

Lawrence d’Arabia è stato trasferito anche al cinema, e il famoso film di David Lean, protagonista Peter O’Toole, ne è una versione abbastanza fedele. Qualche dubbio riguarda peraltro la veridicità del racconto di Lawrence, e più ancora i suoi reali intenti. Questo singolare personaggio, amatissimo nel suo Paese, ha sempre sostenuto di volersi battere pressochè esclusivamente per la causa araba. Ciò in parte è vero, ma studi d’epoca recente hanno potuto accertare che egli, in realtà, ha fatto sempre e in modo primario gli interessi inglesi. Il che nulla toglie tuttavia alla grandiosità e all’interesse dell’opera letteraria.

Lawrence si muove dunque fra le irrequiete genti del deserto, spesso travestito da arabo. Va a visitare i capi-tribù, li scarta uno alla volta e pensa di aver trovato il condottiero ideale in re Feisal. Armati dagli inglesi, i suoi compiono numerosi attentati ai treni, disturbando le retrovie ottomane. Però la maggior impresa viene compiuta in collaborazione con Auda Abu Tayi, indomabile guerriero con il quale Lawrence marcia verso Akaba. La città portuale, imprendibile dal mare, viene conquistata dopo una lunga marcia fra le dune.

Se però Lawrence ha ottenuto ottimi risultati con i suoi irregolari, ben presto gli arabi si trovano in disaccordo fra loro. Ma un’ultima azione consente di interrompere le linee turche, e i reparti inglesi, comandati dal generale Allenby, entrano a Damasco. Lawrence può tornare in patria, pieno di gloria.

I PROTAGONISTI
Re Feisal
Scrive Lawrence: “Subito, al primo sguardo, capii che quello era l’uomo che cercavo in Arabia, il capo che avrebbe portato la rivolta araba al pieno successo”. Alto, sottile, maestoso in una veste di seta bianca, con il “burnus” bruno, Feisal ha la calma di una statua. Quando Lawrence gli dice che vuole arrivare a Damasco, risponde sorridendo: “Ci sono ancora dei turchi più vicini a noi”. E dà ordine di iniziare la guerriglia.

Auda
Auda Abu Tayi compare per la prima volta nella tenda di Feisal. E’ un uomo alto e forte, “magro in viso, di aspetto appassionato e tragico”. E’ un guerriero nato ma anche un abile diplomatico, che misura ogni parola e sa valutare le persone alla prima occhiata. Percorre il deserto come un cavaliere errante, ansioso di battersi per la libertà araba. Scrive Lawrence: “Se le sue azioni avessero realizzato una metà dei suoi desideri, saremmo stati felici e fortunati”. Ma anche Auda – impersonato da Anthony Quinn nel film di David Lean – resterà deluso dalla condotta degli inglesi.

Allenby
Soldato inglese di grandi qualità, nato nel 1861 a Londra. Edmund Henry Allenby andò a comandare l’esercito operante in Palestina dopo essersi distinto nel fronte francese. Entrato a Gerusalemme nel novembre 1917, conquistò l’anno successivo Damasco, Beirut e Aleppo. Promosso a maresciallo e onorato dal re con il titolo di visconte, rimase poi in Egitto fino al 1925 come alto commissario britannico. Morì nel ‘36 lo stesso anno in cui le truppe italiane occupavano l’Etiopia.

I SEGNI DELLO ZODIACO: LO SCORPIONE

I nati nel segno dello Scorpione, dal 23 ottobre al 22 novembre, secondo gli astrologi, sono tipi piuttosto vendicativi. L’allineamento astronomico di questo periodo, Terra-Sole-Costellazione della Bilancia, fa sì che i “vendicativi” diventino “tolleranti”.

Orione era un gigante ammirato per la sua bellezza e per le sue grandi doti di cacciatore. Alcuni dicono che era figlio del re di Creta Minosse; altri sostengono che sia nato direttamente dal grembo della Terra, per intercessione degli dei Zeus, Poseidone ed Ermes.

Orione, però, era un gigante anche un pò scalognato. Secondo la leggenda, fu dapprima accecato da Enopione, al quale aveva rapito la figlia Merope; poi, riacquistata avventurosamente la vista, dopo essere arrivato ai “confini del mondo”, venne accecato ancora, ma questa volta dall’ira, e si propose di sterminare tutti gli animali dell’isola di Creta.

A questo punto però, per scongiurare la strage, Madre Terra gli manda incontro un enorme scorpione che lo uccide con il suo velenoso pungiglione. Per questo motivo le costellazioni di Orione e dello Scorpione si trovano in zone del cielo diametralmente opposte.

Nello Scorpione  brilla “alfa Scorpii” o Antares, la più fulgida di questa costellazione. Antares, che in greco significa “opposta a Marte”, per via del suo colore rossastro, è una stella doppia, ma il suo piccolo satellite, che al telescopio appare di un bel colore verde smeraldo, è così vicino alla grande stella che è quasi impossibile scorgerlo.

Anche “beta Scorpii” o Akrab ("scorpione”) è una stella doppia almeno 1600 volte più luminosa del Sole. Dopo Antares, comunque, la stella più brillante è “lambda Scorpii” o Shaula.

Fra gli ammassi stellari presenti nello Scorpione, M6 è già visibile a occhio nudo. La Costellazione dello Scorpione non è completamente visibile sopra l’orizzonte; per ammirarne tutto il suo splendore bisognerebbe spingersi fino alle coste settentrionali dell’Africa.

Nello Scorpione, nel corso dei secoli, sono apparse molte “stelle nuove” o “novae”. La prima di cui ha notizia stupì l’umanità in una notte di luglio dell’anno 134 a.C.
Il nuovo astro brillò di uno splendore vivissimo per qualche tempo, poi, a poco a poco, si spense fino a scomparire.
La strana apparizione suggerì all’astronomo greco Ipparco di compilare un catalogo, ancora famoso, di tutte le stelle, “affinchè”, come narra Plinio, “i posteri potessero conoscere i cambiamenti nel cielo”.

Oggi sappiamo, grazie ai progressi dell’astronomia, che non si tratta di stelle nuove ma di stelle preesistenti che, tutto a un tratto, esplodono in una grande fiammata liberando, in pochi giorni, tutta l’energia che il nostro Sole emette in diecimila anni.

E’ la fase finale della vita di una stella, da cui prendono ulteriore vita le stelle “nane bianche”, le “pulsar” e i famosi “buchi neri”.

LE REPUBBLICHE MARINARE

Amalfi, Pisa, Genova e Venezia. Noi le ricordiamo come le Repubbliche marinare. In altri Paesi, specie in Francia, si preferì chiamarle “Repubbliche mercantili”; e anche in questa definizione c’è del vero. Ottocento anni fa, tra il XII e il XIII secolo, i popoli più potenti del Mediterraneo erano i bizantini e gli arabi: ma sul mare l’iniziativa era tutta dei battelli italiani. Soldati che veleggiavano cercando conquiste, mercanti che andavano ad acquistare in Oriente spezie e stoffe preziose, armatori che istituivano servizi regolari fra i continenti. Due volte all’anno partivano da Venezia navi dirette al Mar Nero attraverso Costantinopoli, e toccavano al ritorno Beirut e Alessandria d’Egitto: Asia, Africa ed Europa in un solo viaggio. Colonie italiane prosperavano su tutta la costa mediterranea.
Avessero trovato fra loro un accordo, le Repubbliche marinare avrebbero dominato il mondo allora conosciuto. In realtà qualche volta si allearono; nel 1187 si disse che “Pisa fu per 3 giorni regina della terra”, quando ammiragli pisani guidarono le navi di Venezia e Genova all’attacco di Gerusalemme, conquistata dal Saladino. Ma è soprattutto una storia di guerre fra italiani. La splendida Amalfi, nell’antichità più ricca di Napoli, fu distrutta da Pisa. Toccò poi a Genova mettere in ginocchio i pisani, indirettamente vendicati da Venezia, che, dopo aver rischiato di essere invasa, inflisse ai genovesi una sconfitta definitiva. I veneziani, pur capaci di resistere per secoli ai turchi, iniziarono la decadenza quando la scoperta dell’America spostò nell’Oceano Atlantico le grandi correnti di traffico, facendo diventare il Mediterraneo un semplice mare interno. Ma ci volle Napoleone, alle soglie dell’800, per mettere fine alla Repubblica di San Marco.

Navi agili e veloci
Alla fine del primo millennio i marinai italiani usavano le dromone, ereditate dai Goti: navi veloci e agili che potevano prendere agevolmente il largo, sebbene si preferisse in genere costeggiare la riva. Più tardi vennero in uso le galee o “galere”, lunghe una quarantina di metri con circa 150 uomini di equipaggio: in un primo tempo liberi cittadini che si arruolavano spontaneamente, ma in seguito condannati o schiavi musulmani (e prigionieri cristiani, naturalmente, sulle navi turche e arabe). La parola “galeotto” ha qui la sua origine. Questa povera gente, che remava incatenata a dei banconi, affondava con lo scafo in battaglia o a causa di naufragi. Da ultimo vennero i galeoni, potenti navi da battaglia, le cui linee sono immortalate nei quadri del Carpaccio, esposti a Venezia nella Galleria dell’Accademia.

Colonie sulle coste greche e africane
Sempre in lotta con i pirati saraceni, dromone e galee erano inevitabilmente navi da guerra: nessuno in quell’epoca si arrischiava sui mari senza armarsi. I capi delle Repubbliche però si rendevano conto di non avere forze sufficienti per conquiste durature: così preferivano impiantare piccole colonie sulle coste greche e albanesi, asiatiche e africane, od ottenere porti e stabilimenti per i loro commerci. Ai mercanti che aprivano la strada seguivano uomini d’affari e avventurieri di ogni genere, che spesso si arricchivano rapidamente. Per finanziare le spedizioni sorgevano le prime banche, sostanzialmente un’invenzione italiana: spesso a Genova e Venezia, ma anche a Roma, era il mercante che diventava banchiere. Subito dopo – altro istituto che si è sviluppato sino ai nostri giorni – le assicurazioni: dapprima erano gli associati a una stessa impresa che si dividevano i rischi, con una mutua: poi si cominciarono a pagare premi per le merci o le navi perdute.

Il diritto marittimo
Le norme del diritto marittimo furono stabilite dalle “Tavole amalfitane”; fu poi Venezia a perfezionare il sistema daziario, e Genova a stabilire le mediazioni commerciali, mentre nel caso di difficoltà per i privati intervenivano i singoli Stati con sovvenzioni o garanzie. Spirito di avventura, grande capacità tecnica, ricerca di ricchezza: furono i motivi di una straordinaria espansione.

LE GRANDI CIVILTA': GLI INDIANI

L'India è un Paese vasto quasi quanto la metà dell'Europa. Ancora oggi vi si parlano circa 150 lingue: quelle del Nord appartengono al gruppo indoeuropeo, mentre quelle del Sud sono di origine molto più antica. L'arido altopiano del Deccan, nel centro della penisola, anticamente costituì un ostacolo insormontabile per l'espansione delle genti del Nord e la parte meridionale dell'India visse per millenni una vita separata, legata a tradizioni diverse da quelle della regione settentrionale. Nell'area nordoccidentale, fra il III e il II millennio a.C., fioriva una civiltà raffinata. I fondatori erano agricoltori che dall'alta valle dell'Indo si insediarono nel bassopiano, dando vita a centri urbani con alcune decine di migliaia di abitanti, come Harappa e Mohenjo-Daro. Agricoltura (cotone), allevamento (bufali) e commercio fluviale erano alla base dell'economia. Elefanti, barche e pesanti carri a due ruote erano adoperati per il lavoro ed il trasporto. Usavano una scrittura di 400 segni, mai decifrata finora.

Distrutte dal diluvio universale
Harappa e Mohenjo-Daro, pur essendo distanti tra loro più di 600 chilometri, presentavano una struttura urbanistica molto simile. C'erano bagni pubblici, piazze per i mercati, edifici dedicati al culto e molte botteghe artigiane. Harappa crebbe intorno a una collinetta, su cui vennero edificati silos per il grano. Non era fortificata, ma munita di terrapieni per fronteggiare le inondazioni dell'Indo. Mohenjo-Daro presentava su un perimetro di 6 km una pianta a scacchiera: blocchi di abitazioni divise da larghe strade, molto curate per lo scolo delle acque. La scomparsa pressochè improvvisa di queste due città ha fatto nascere molte ipotesi. La più accreditata ritiene che siano state travolte da una colossale alluvione, quel diluvio universale di cui si trova traccia nella letteratura e nei resti archeologici di molte civiltà contemporanee a quella indiana.

L'invasione dal nord
La civiltà dell'Indo tramontò verso il 1500 a.C. sotto la spinta degli arii provenienti dagli attuali Iran e Afghanistan, forniti di armi di ferro e cavalli sconosciuti in India. Gli indigeni, i dravida, furono asserviti o costretti a fuggire verso Sud, nel Deccan, dove ancora oggi vivono in villaggi sperduti alcuni loro discendenti. Gli arii furono più tardi sottomessi dai persiani, poi da Alessandro Magno, infine una serie di guerre interne si risolse con la nascita del Primo Impero (322 a.C.), sotto il principe Maurya, che comprendeva le regioni settentrionali dell'India. La pace fu di breve durata: nel 237 a.C. ripresero le guerre e le invasioni e solo nel 320 d.C. il territorio fu di nuovo unificato sotto la dinastia Gupta che regnò per due secoli (età aurea della civiltà indiana) e fu abbattuta dagli unni. Da allora (con la breve eccezione dell'impero musulmano del Gran Mogol nell'India settentrionale tra il 1500 e il 1700), si susseguirono dinastie locali e dominazioni straniere (i primi europei ad insediarsi furono i portoghesi a Goa nel XV sec.).

Le caste e i veda
Gli arii divisero la società in caste chiuse ed ereditarie, in base alla professione e all'importanza sociale. Questa struttura ha resistito per millenni fino ai tempi moderni. Al vertice c'erano i bramini, sacerdoti onnipotenti che interpretavano i Veda, i libri sacri.
Nella seconda casta c'erano i guerrieri, nella terza i mercanti e i contadini, nella quarta gli operai. Tutti gli esclusi dalle quattro caste erano i paria, gli intoccabili. Gli indigeni dravida facevano parte di quest'ultimo gruppo di miserabili nel quale venivano relegati anche coloro che tradivano le regole della propria casta.

Una società ricca
La civiltà indiana 4000 anni fa era ricca. Contrariarmente a quanto succede nell'India moderna il cibo era sufficiente per tutti e le popolazioni potevano permettersi anche di mantener un folto stuolo di monaci e asceti. Base dell'alimentazione era il riso, condito con carne o legumi. D'inverno si mangiavano focacce e dolci cucinati con farina di frumento. Erano molto popolari anche orzo, miglio, piselli, fagioli, lenticchie. Pompelmi, arance, meloni e melograni erano i frutti più diffusi. Gli indiani usavano molto bere succhi di frutta, a quei tempi assolutamente sconosciuti agli altri popoli.

KARL BRUCKNER: IL GRAN SOLE DI HIROSHIMA

L'AUTORE
Lo scrittore Karl Bruckner è nato in Austria il 9 gennaio 1908. Tra i suoi numerosi libri per ragazzi ricordiamo Il faraone d'oro e Viva Mexico. Per Il gran sole di Hiroshima ha ricevuto nel 1961 il Premio di Stato austriaco e il Premio città di Vienna.

LA TRAMA
Il 6 agosto 1945 un grosso aereo americano, un B-29, sta volando sull'Oceano Pacifico verso il Giappone. Quando le stazioni costiere l'avvistano nessuno ordina l'allarme. E' un apparecchio solo, inutile turbare il lavoro delle fabbriche di armi. Dopo anni di vittorie militari i giapponesi sono ormai accerchiati, ma continuano a combattere. Se gli americani tenteranno di sbarcare, sarà un bagno di sangue. Lo stesso calcolo è stato fatto a Washington: invece che all'invasione si ricorrerà alla bomba atomica, che un gruppo di scienziati ha appena messo a punto. L'obiettivo del B-29 è un importante centro industriale, Hiroshima, che fino a quel giorno non è mai stato bombardato. Mentre l'aereo si avvicina, nella città continua la vita di tutti i giorni. Ci sono due bambini, Shigheo Saski e la sorellina Sadako, che ha appena 4 anni. Sadako sopravvive alla terribile bomba ma morirà 10 anni dopo, per le radiazioni che le hanno avvelenato il sangue.

LA PROTAGONISTA
A Hiroshima i bambini giocano, i loro genitori faticano in fabbrica o combattono nell'esercito, gli studenti aiutano nel lavoro. Qualche affarista approfitta della povera gente. Fra tanti personaggi, però, il vero protagonista è un altro: è la bomba custodita nel ventre del B-29, che sta per essere sganciata sulla città. Sembra un ordigno come gli altri; ma quando la palla di fuoco esplode, niente resiste. L'hanno attaccata a un paracadute, per dare il tempo all'aereo di allontanarsi. I piloti vedono in un attimo un'intera città spazzata via: 86 mila persone arse vive. Altre 72 mila ferite gravemente. Diecimila case distrutte.

MILLE GRU DORATE
Sadako, la sorella di Shigheo, ha 14 anni. Il giorno della bomba è ormai un ricordo remoto. Nel momento dell'esplosione si è sentita come bruciare dentro, ma è rimasta viva. Suo padre ha ripreso l'antico lavoro di barbiere e guadagna bene; tutti lavorano per ricostruire la città. Nella primavera del 1955 si tiene la grande staffetta ciclistica delle scuole, su due ruote da Tokio a Hiroshima. Sadako è forte è bene allenata; correrà l'ultima frazione, una decina di chilometri.

A darle la bandierina per il cambio è una ragazzotta pesante, molto in ritardo sugli altri. Sadako mette il fazzoletto triangolare fra i denti e parte furiosa. Vuole vincere, o almeno, non sfigurare. Stacca due maschi, ne raggiunge un altro, poi un altro ancora. Gli spettatori applaudono questa ragazza che corre come un uomo. Alla fine Sadako ha superato nove avversari. Era partita al ventottesimo posto, arriva diaciannovesima. E' felice, si complimentano tutti. Ma si sente esausta.

La fatica della corsa ha messo in moto un tremendo meccanismo interno. Molte persone sono già morte a Hiroshima anni dopo la bomba, a causa delle radiazioni. E' come un veleno annidato nell'organismo, che d'improvviso dilaga senza che i medici possano fare nulla. Sadako viene portata all'ospedale. Dice un medico americano: "Vedo nei suoi occhi le macchioline grigie che mi danno la certezza che questa bimba è segnata dalla morte. La sua forma è acuta: non c'è rimedio".

I medici sanno che è inutile iniettare sangue sano nelle vene di chi è stato colpito dalle radiazioni. E' malato il midollo dentro le ossa; non si riesce che a prolungare l'agonia. Shigheo pensa di poter ugualmente aiutare la sorella. Le porta della carta dorata, e ritaglia un uccello dalle ali aperte, una gru. Il giorno in cui Sadako ne avrà ritagliate mille sarà guarita. La ragazza è stanca, senza forze; ma tenta. A una a una le gru dorate vengono appese con fili intorno al suo letto. Lo stesso sta facendo un suo amico, Shighetomo, che arriva a costruire un pò più di quattrocento; poi muore. Sadako resiste. Cinque, sei, novecento gru. Ha fede, anche se le braccia non reggono più. Ha in mano la gru 910. Vede solo un leggero chiarore. Presto avrà mille gru, si ritroverà guarita. D'improvviso una luce. I genitori piangono vicino alla figlia morta. Le gru ondeggiano sul letto, come volessero volare via e ne fossero impedite soltanto dai fili che le tengono prigioniere.

ERNEST HEMINGWAY: PER CHI SUONA LA CAMPANA

Autore: Ernest Hemingway
Lingua originale: inglese-americano
Data di uscita: 1940
Genere: romanzo storico
Epoca: guerra civile in Spagna ( 1935)

L’AUTORE
Alto e grosso, con un fisico da pugile, Ernest Hemingway è stato uno degli scrittori americani più letti e ammirati in questo secolo. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, anche sul fronte italiano dove rimase ferito, ebbe una intensa attività giornalistica, nel suo Paese e a Parigi. Frequentò molti famosi autori, come Scott Fitzgerald: la “generazione perduta”, come più tardi furono definiti. Il suo primo grande successo, Il sole sorge ancora, è del 1926, quando l’artista aveva appena 27 anni. Poi Addio alle armi, ambientato in Italia, Verdi colline d’Africa (famosa la sua passione per la caccia grossa), Avere e non avere, numerosi racconti di grande bellezza e, nel 1940, Per chi suona la campana. Nel ‘56 Il vecchio e il mare gli valse il premio Nobel: ma ormai Hemingway era stanco e soffriva di depressioni. Si uccise nel 1961 con un colpo di fucile.

LA TRAMA
Durante la guerra civile spagnola, un giovane professore americano si unisce alle bande che lottano contro i falangisti del generale Franco. Conosce perfettamente la lingua, crede nelle idee di libertà. Non è però un illuso. Sa che anche tra gli antifascisti ci sono figure dubbie: Marty, il fanatico per il quale ordinare un’esecuzione è cosa normale; il campesino (contadino) che usa i medesimi, spietati metodi degli avversari. Ma Robert Jordan, l’americano, pensa che alla fine i comunisti capiranno i valori democratici. E comunque la prima esigenza è di fermare le truppe di Franco.

Nella sua vita fra le montagne, Robert conosce Maria, che ha subìto violenze dai falangisti: una ragazza bella e smarrita, che fatica a ritrovare un’identità. Un altro personaggio vivissimo è Pilar, una zingara che impone a tutti il suo carattere pieno di forza. A capo dei partigiani è Pablo, che un pò pensa di utilizzare Jordan, un pò lo considera come un intruso. L’americano è un esperto di esplosivi, e a valle c’è un ponte da far saltare. Non è un’azione decisiva per le sorti della guerra, ma almeno il nemico avrà qualche problema in più.

Mentre si prepara l’attentato, fra Robert e Maria nasce un amore intenso e tanto più appassionato perchè, come temono entrambi, privo di un futuro. Pilar guarda la coppia con simpatia, gli altri con diffidenza. Ma è il momento di agire. Non conta più il cinismo dei politici i quali, da una parte e dall’altra, fanno pagare prezzi terribili alle popolazioni civili. Ormani c’è solo da combattere. Il ponte viene fatto crollare con la dinamite, i falangisti sono costretti a fermarsi. Ma la banda deve ancora attraversare un terreno aperto, sotto il tiro nemico. Tutti riescono a passare, solo Jordan resta ferito. Non può muoversi, sa che se verrà fatto prigioniero lo aspetta la tortura. Così convince Maria ad allontanarsi con gli altri e, da solo, protegge gli amici con le sue ultime pallottole. Il suo sacrificio è valso a qualcosa.

I PROTAGONISTI
Robert Jordan
Non è il solito idealista americano, figura sulla quale si è spesso esercitata l’ironia di scrittori come Graham Greene. Vede tutti i complicati aspetti della realtà, e molti lo disgustano. Ma, come lo stesso Hemingway, sa due cose: bisogna impegnarsi e, una volta fatta una scelta, bisogna portarla avanti sino in fondo. Così Robert, anche se si innamora di Maria, anche se non gli piacciono alcuni uomini della sua banda, pensa essenzialmente al ponte da far saltare. Ha scritto  il poeta John Donne: se muore un uomo, la sua perdita riguarda l’intero genere umano. “Per cui non domandare mai per chi suona a morto la campana, suona anche per te”. Quando sente che è arrivata la sua ora, Robert non si tira indietro.

Maria
Travolta dalla ferocia della guerra, convinta che si debba combattere ma logicamente impaurita, Maria spera fino all’ultimo che Robert si salvi. Fra le tante azioni militari, tra la ferocia degli uomini, il suo pensiero costante è per lo straniero che ha cambiato la sua povera vita. Ma sa che le cose sono più forti di lei, e non possono essere cambiate. Quando Jordan resta da solo a difendere la ritirata della banda, Maria si dispera ma non si stupisce. La campana ha suonato anche per lei.

Pilar
Rustica e beffarda, ma con una segreta vena di umanità, la zingara Pilar sa mettere in riga i più duri guerriglieri, i quali temono la sua autorità e anche la sua lingua. Parla e agisce come un uomo, imponendosi anche a un mezzo selvaggio come è Pablo. Nobile e plebea, sdegnosa e capace di grandi affetti, Pilar è la Spagna.

HANS CHRISTIAN ANDERSEN: LE FIABE

L'AUTORE
Capita spesso che uno scrittore, dopo avere cercato la gloria attraverso libri che considera importanti, debba la sua celebrità a una produzione apparentemente minore: nel nostro caso, appunto, le fiabe. In Danimarca c'è ancora chi legge i romanzi di Hans Christian Andersen, la sua autobiografia, le descrizioni dei viaggi; e spesso si tratta effettivamente di opere di livello, altamente stimate dai contemporanei. Ma se Andersen teneva al giudizio della critica, tanto da amareggiarsi per alcuni giudizi meno favorevoli, è proprio alle fiabe che deve l'immortalità. La loro stesura è durata dal 1835, anno della prima raccolta, fino al 1872: in tutto 156 racconti, che sono altrettanti gioielli. Curioso che, in gioventù, Andersen si sentisse ispirato da filosofi e pensatori danesi e tedeschi, componendo non solo poesie ma perfino una serie di salmi, tuttora cantati in Danimarca. Ma del resto del mondo, se non fosse stato per le fiabe, il suo nome sarebbe rimasto ignoto.

LA TRAMA
C'è qualcosa di comune fra la Sirenetta e il soldatino di stagno, il brutto anatroccolo e la piccola fiammiferaia, gli elfi che vivono sui monti e i cigni che portano in volo le principesse? A prima vista l'unico legame è costituito dalla fantasia: ma questo, a ben pensarci, vale per tutti i libri di fiabe. Accade però qualche volta che, in una serie di racconti, le sensazioni che il lettore ricava dipendano dalla mano magica dell'autore. Può essere l'immaginazione sfrenata, oppure la leggerezza della frase, o ancora la vitalità dei personaggi e il fascino dell'ambiente. Ingredienti che, in Andersen, si ritrovano tutti insieme.
Certo, fra tanti spunti, alcuni più di altri sono rimasti nella memoria dei ragazzi - e degli adulti - di tutto il mondo. Non tutte le storie di Andersen si concludono bene, "..e vissero felici e contenti". Spesso, anzi, il finale è rattristante: se l'anatroccolo sgraziato diventa il più bello dei cigni, la piccola venditrice di fiammiferi muore nel gelo. E quando il soldatino senza una gamba si innamora, della ballerina di carta, ritta anch'essa sulla punta di un solo piede, basta una fiammata per consumarli entrambi, come bolle d'aria. Una nazione intera infine, la Danimarca, si è commossa per la Sirenetta, la cui stata guarda il mare dal porto di Copenaghen, ammirata da tutti i turisti.

IL PROTAGONISTA
Dovendo scegliere uno solo fra i personaggi creati da Andersen, non si può sbagliare: è la Sirenetta che vive nel palazzo sottomarino del padre, il Re del mare, e sogna il giorno in cui potrà vedere gli abitanti e le cose della terra. Di anno in anno le sue sorelle meno giovani salgono in superficie, tornando con descrizioni affascinanti. Una resta incantata dalla bellezza dei tramonti sulle città, un'altra dai palazzi e castelli che sorgono sui prati; e quella che emerge d'inverno si ritrova fra i grandi blocchi di ghiaccio, rilucenti come diamanti. Quando compie 15 anni, sui 300 di vita che sono concessi a questi esseri marini, la Sirenetta corre in alto, leggera. Tutto è calmo, un magnifico bastimento galleggia sull'acqua. Si vedono luci, si odono musiche: è la festa di un giovane principe, del quale la piccola sirena subito si innamora. Scoppia una tempesta, la nave va a fondo, tutti annegano: ma è lei che salva l'amato, depositandolo su una spiaggia. Per poterlo rivedere, la Sirenetta si fa aiutare da una strega: dovrà morire giovane, soffrirà tremendi dolori per la comparsa delle gambe al posto della coda, perderà la sua bellissima voce ma diventerà una donna. Così avviene. Il principino la vede, è colpito dalla sua straordinaria bellezza, la ospita nel suo palazzo: però dovrà sposare un'altra. Mentre egli torna per mare nella sua terra, con la futura sposa, le sorelle danno alla Sirenetta un pugnale: se con quello ucciderà il suo amore, sarà salva e tornerà come prima. Ma lei getta il coltello in mare e si trasforma in spuma salata sulla cresta delle onde, da dove 300 anni più tardi volerà in cielo.

IL VESTITO NUOVO DELL'IMPERATORE
C'è un modo di dire che si usa anche nella politica moderna, "il re è nudo". Significa che certi potenti, o certi loro metodi poco onesti, vengano smascherati dalla gente comune, che si può ingannare ma solo fino a un certo punto. Questo concetto deriva da una famosa fiaba di Andersen - forse la più famosa - intitolata Il vestito dell'imperatore. E' la storia di un re pieno di vanità, il quale non si cura che dei suoi abiti: e di questa mania approfittano due bricconi promettendogli non solo il più bel vestito che si sia mai visto, ma dei tessuti dotati di una mirabile proprietà. Solo le persone intelligenti potevano coglierne trame e colori, invisibili invece per gli stupidi.

L'imperatore pensa che in questo modo potrà sapere subito quanta gente capace c'è nel suo regno, e quanta inetta. Ma quando i due lestofanti gli presentano l'abito, descrivendone le meraviglie, non vede nulla: e difatti quelli si erano intascati il filo e gli ori, senza tessere nessun drappo. Temendo di essere scambiato per uno sciocco, il sovrano finge di ammirare tinte e sfumature; e dopo di lui fanno lo stesso i cortigiani incaricati di verificare. Nessuno vuole passare per stupido e venire così scacciato dalla reggia.
Poichè l'intero Paese viene informato della faccenda, quando il re sfila per strada con l'abito nuovo tutti i cittadini si profondono in elogi: ma quanto è bello, come gli sta bene, che bravi quei sarti. Solo un bambino strilla d'improvviso: "Ma non ha niente addosso!.."; e dopo un pò, udita la voce dell'innocenza, l'intera popolazione ripete lo stesso grido, mentre l'imperatore sprofonda nella vergogna.
Qui, nella versione moderna, dovrebbe terminare la favola del "re nudo", usata, come dicevamo, ancor oggi per smascherare i lati negativi del potere. Senonchè vanno lette anche  le ultime righe di Andersen: "L'imperatore si rodeva, perchè anche a lui sembrava veramente che il popolo avesse ragione. Ma pensava: "Qui non c'è scampo! Qui ne va del decoro della processione, se non si rimane imperterriti". E prese un'andatura ancora più maestosa; e i paggi continuarono a camminare chini, reggendo lo strascico che non c'era". Dove la morale è pessimistica: nudo o no, è il potente che continua a comandare, trovando sempre servi sciocchi.