QUESTA È UNA RACCOLTA DI NOTIZIE E FATTI STORICI, ADATTA PER RICERCHE SCOLASTICHE E PER ARRICCHIRE IL PROPRIO BAGAGLIO CULTURALE.

L’ALLUVIONE DEL POLESINE

Dal 7 al 12 novembre 1951 piovve incessantemente su tutta l’Italia del nord. Allagamenti si verificarono in Piemonte e Liguria, 18 persone morirono nel Comasco per il crollo di case. Ma in Polesine l’alluvione del 14 novembre ebbe dimensioni ben più tragiche: si aprirono tre squarci negli argini del Po e vennero travolte le opere di rinforzo degli argini stessi.

Un’area di oltre 1000 km² di terreni coltivati fu sommersa dalle acque, 300 case vennero distrutte, 5000 lesionate. I danni complessivi ammontarono a 60 miliardi di lire. Nel Polesine inondato persero la vita un centinaio di persone, 180.000 furono evacuate; Rovigo, Cavarzere e Adria vennero sgomberate.

L’opera di prosciugamento dei terreni, che subirono forti modificazioni terminò solo nel maggio 1952. Nei mesi e negli anni successivi seguirono altre alluvioni e mareggiate. Migliaia di persone abbandonarono il Polesine e i contadini polesani dettero vita alla prima ondata di emigrazione del secondo dopoguerra, riversandosi nelle città industriali.

ANTONIO GRAMSCI

Antonio Gramsci nacque il 22 gennaio 1891 ad Ales (CA) da una famiglia piccolo borghese, relativamente colta. Nell’estate del 1911 giunse a Torino per concorrere a una borsa di studio che gli consentisse di proseguire, dopo la licenza liceale, negli studi universitari. Iscrittosi alla facoltà di lettere, strinse rapporti di amicizia con Palmiro Togliatti e con Angelo Tasca, già allora giovane militante socialista.

Nel 1915 Gramsci lasciò l’università per il giornalismo e l’attività politica. Assunto alla redazione dell’Avanti!, incominciò a pubblicare i suoi corsivi in una rubrica intitolata Sotto la Mole e a occuparsi di critica teatrale.

Nel 1917 ricoprì l’incarico di segretario della sezione socialista torinese e diresse il settimanale della sezione, Il Grido del popolo, del quale fece uscire un numero unico dal titolo programmatico La città futura.

Nel 1919 Gramsci diede vita all’Ordine nuovo, una rivista settimanale alla quale partecipavano Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Piero Gobetti. Da quelle colonne formulò la proposta della costituzione dei consigli di fabbrica e seguì l’occupazione delle fabbriche nell’autunno del 1920.

L’anno seguente nel congresso di Livorno si realizzò la scissione del PSI e nacque il Partito comunista d’Italia, di cui Gramsci fu fin dall’inizio instancabile animatore, rappresentandolo sui banchi della Camera dei deputati così come nelle riunioni dell’Internazionale comunista.

Arrestato nel 1926, negli anni di prigionia si dedicò a uno studio approfondito e sistematico dello sviluppo delle vicende storiche e culturali del nostro paese. I Quaderni del carcere, pubblicati dopo la fine della seconda guerra mondiale, si imposero come un’opera destinata a rappresentare un profondo rinnovamento nella cultura italiana, confermando quel giudizio che Gramsci in una lettera alla madre aveva dato di se stesso, definendosi “un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata”.

Alla sua morte, avvenuta all’alba del 27 aprile 1937, soltanto la cognata Tatiana e il fratello Carlo furono ammessi a vedere la salma, che venne cremata il 5 maggio. Le ceneri di Gramsci, inumate in un loculo del Comune di Roma al Verano, furono trasferite al Cimitero degli Inglesi dopo la liberazione.

L’ANTOLOGIA

Il mensile fiorentino nasceva per iniziativa dell’editore e libraio Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), un ligure di famiglia ginevrina, di formazione protestante e di cultura cosmopolita.

Nel Gabinetto scientifico e letterario, da lui fondato nel 1812, riunì a Firenze scrittori di vario orientamento e provenienza, alcuni dei quali erano sfuggiti alla repressione dei moti del 1820 e 1821, offrendo loro nella sede di Palazzo Buondelmonti un centro nazionale di incontri e discussioni.

L’Antologia era strettamente collegata alle attività del Gabinetto e stampava oltre 700 copie, un buon numero delle quali veniva diffuso al di fuori della Toscana. Vi collaboravano alcuni degli intellettuali liberali più attivi fra il 1821 e il 1831: gli esuli napoletani Giuseppe Poerio, Gabriele Pepe, Pietro Colletta; Pietro Giordani, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montani, provenienti dall’esperienza del Conciliatore; i cattolici fiorentini Raffaele Lambruschini e Gino Capponi. Garantivano un apporto culturale e finanziario proprietari terrieri, aristocratici e uomini d’affari liberali, come Cosimo Ridolfi, Bettino Ricasoli, Enrico Mayer. Fautori del liberismo in economia, impegnati nella ricerca e nella divulgazione di nuove tecniche agrarie, promotori di asili e di scuole di mutuo insegnamento, i redattori del giornale cercarono di dare all’Antologia un’impronta illuministica moderata, caratterizzando il mensile in funzione pedagogica e riservando alla letteratura un posto marginale rispetto all’economia, alla statistica, al diritto, alle scienze. Nello sforzo di giungere fino ai contadini, alcuni dei collaboratori ripresero e divulgarono, attraverso giornali agrari e almanacchi popolari, le tematiche riformatrici del mensile di Vieusseux.

L’Antologia cessò le pubblicazioni nel 1833 a causa delle pesanti pressioni esercitate dall’Austria sul granduca di Toscana Leopoldo II dopo il fallimento dei moti del 1831.

 

LA BIBLIOTECA ITALIANA

La rivista mensile “Biblioteca italiana” nacque a Milano per iniziativa del conte Heinrich von Bellegarde, governatore della Lombardia e luogotenente del viceré fino al marzo del 1816, impegnato a creare intorno all’Austria il consenso degli ambienti intellettuali italiani. Originariamente Bellegarde aveva pensato di affidarne la direzione a Ugo Foscolo, la figura di maggior prestigio fra i letterati italiani, facendo leva sull’ostilità manifestata dal poeta veneziano nei confronti della politica napoleonica. Dopo il rifiuto di Foscolo, che alla collaborazione con gli austriaci preferì la via dell’esilio, e quello successivo di Vincenzo Monti, che declinò l’incarico dopo alcuni mesi di lavoro, Bellegarde nominò direttore Giuseppe Acerbi, diplomatico, viaggiatore e geografo, che divenne l’uomo di fiducia del governo austriaco.

Il primo numero apparve nel gennaio del 1816. Le pubblicazioni sarebbero proseguite, con rigorosa scadenza mensile, fino al 1840, quando la rivista assunse il nuovo titolo di “Giornale dell’Istituto regio lombardo di lettere e arti” con cui continuò a uscire fino al 1859. Vi collaborarono alcuni dei più illustri letterati del tempo, da Vincenzo Monti a Pietro Giordani. Finanziata, anche in modo diretto, dalle casse dello Stato, la rivista riuscì a raggiungere e a mantenere la ragguardevole cifra di oltre 700 abbonati. Secondo il programma iniziale, essa avrebbe dovuto accogliere le aspirazioni di una cultura “moderna”, al di sopra delle frontiere nazionali, ma dietro le dichiarazioni ufficiali si nascondeva l’obiettivo non meno importante di mostrare i vantaggi che derivavano alla Lombardia dall’appartenenza all’impero asburgico.

 

IL CONCILIATORE

Il progetto di un periodico contrapposto alla “Biblioteca italiana” nacque negli ambienti intellettuali milanesi che avvertivano l’esigenza di un giornale libero da legami con il governo austriaco e impegnato nella prospettiva politica di una nazione italiana indipendente.

Dopo una lunga fase di discussione, l’iniziativa si concretizzò nel settembre del 1818. Il Conciliatore uscì con cadenza bisettimanale, fino alla chiusura per ordine del governo austriaco nell’ottobre del 1819. Ne furono promotori Federico Confalonieri e Luigi Porro Lambertenghi, esponenti dell’aristocrazia milanese, liberali e convinti fautori delle riforme economiche e del progresso tecnologico.

Vi collaborarono soprattutto letterati che si autodefinivano romantici e si contrapponevano polemicamente ai classicisti della “Biblioteca italiana”: Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet, Ermes Visconti. A loro si unirono Melchiorre Gioia, Giandomenico Romagnosi, Giuseppe Pecchio, Giovanni Rasori. Esplicito era il richiamo al precedente settecentesco del “Caffè”, il periodico degli illuministi lombardi, di cui Il Conciliatore riprendeva la tensione etico-politica, l’apertura alla cultura europea, l’intenzione di superare le sterili polemiche letterarie per rafforzare l’impegno civile nella società. Alle recensioni letterarie il giornale milanese affiancava la trattazione di questioni legate allo sviluppo della tecnica o di interesse sociale (come l’istruzione elementare, l’illuminazione a gas, l’organizzazione carceraria) e novelle finalizzate all’educazione popolare. La circolazione del “foglio azzurro”, come venne chiamato per il colore delle sue pagine, rimase comunque ristretta: 240 abbonati, quasi tutti concentrati a Milano. Cessate le pubblicazioni, gli esponenti più rappresentativi del gruppo passarono all’attività clandestina, finendo coinvolti nella repressione del 1821. Anche per queste successive vicende, Il Conciliatore divenne un simbolo e un mito del risorgimento italiano.

 

GIOACCHINO MURAT

Nato a Labastide-Fortunière nel 1767, Gioacchino Murat, giovane e coraggioso ufficiale dell’esercito francese, fu accanto a Napoleone Bonaparte in tutte le più importanti campagne militari, sapendosi conquistare la fiducia dell’imperatore e la mano della sorella, Carolina Bonaparte.

Generale, poi maresciallo dell’impero, principe imperiale, granduca di Clèves e di Berg, divenne nel 1808 prima luogotenente generale di Spagna, poi re di Napoli. In Italia proseguì la politica antifeudale iniziata dal suo predecessore, Giuseppe Bonaparte, promulgò il codice napoleonico ed estese al Napoletano le riforme giuridiche francesi. Entrato in conflitto con Napoleone, alla cui tutela cercò di sottrarsi in nome dell’autonomia del Regno di Napoli, dopo la sfortunata campagna di Russia avviò trattative separate con Austria e Inghilterra cercando di salvare il regno dalla catastrofe dell’impero. Riuscì nel suo intento fino al 1815, quando volle seguire il cognato nell’avventura dei cento giorni seguita alla fuga dall’Elba, ma il suo tentativo di sollevare le popolazioni italiane contro la dominazione austriaca, espresso nel Proclama di Rimini, fallì nell’indipendenza quasi generale.

Ripetutamente sconfitto dagli austriaci e indebolito dalla stessa ostilità di gran parte della classe dirigente napoletana, dovette lasciare il Regno di Napoli a Ferdinando IV di Borbone, fuggire in Francia e di lì, dopo la sconfitta di Waterloo, riparare in Corsica. Da Ajaccio coltivò ancora il sogno di riconquistare il regno perduto, contando sull’appoggio delle masse popolari, ma la sua spedizione in Calabria finì tragicamente, a pochi giorni dallo sbarco. Consegnato ai soldati borbonici dalla popolazione di Pizzo Calabro, Murat fu fucilato come nemico dell’ordine pubblico.

 

LEONE XIII E LA RERUM NOVARUM

Con l’enciclica del 15 maggio 1891 papa Leone XIII prese posizione sui problemi operai e più in generale sociali, al fine di porre su nuove basi i rapporti con gli Stati (gli storici hanno parlato di “riconquista cattolica”) e di accrescere l’influenza della Chiesa fra i lavoratori.

Opponendosi contemporaneamente ai principi del socialismo e agli “eccessi” del capitalismo, derivati principalmente dalla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, l’enciclica invitava i cattolici ad associarsi nella forma mista delle “corporazioni di arti e mestieri”, particolarmente idonea alla realizzazione dell’ideale cristiano di “conciliazione” fra le classi, ma anche in quella delle associazioni di soli operai. Allo Stato si chiedeva di favorire lo sviluppo della piccola e media proprietà, quale importante fattore di benessere e di stabilità sociale, e di agire per la tutela del riposo festivo, per la limitazione degli orari di lavoro, per la protezione delle donne e dei fanciulli.

Il risultato più rilevante dell’enciclica fu di incoraggiare l’attività dei movimenti democraticocristiani o cristianosociali e la formazione di associazioni sindacali cattoliche.